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CENTRO STUDI | CAPPELLE, ACCADEMIE & CONSERVATORI | CAPPELLE. DUOMO DI MILANO DALL'ARS NOVA AL RINASCIMENTO

LA MUSICA NEL DUOMO DI MILANO DALL' ARS NOVA AL RINASCIMENTO

prof. UMBERTO SCARPETTA
Conservatorio di Milano

La serie dei musicisti a cui fu affidata la responsabilità della musica nella Cattedrale si apre con una delle principali figure dell’epoca di transizione fra l’ars nova trecentesca e il movimento artistico quattrocentesco chiamato comunemente “scuola fiamminga”: Matteo da Perugia. Questi beneficiò della protezione dell’arcivescovo di Milano Pietro Filargo e lo seguì al concilio scismatico di Pisa, che elesse il Filargo papa col nome di Alessandro V, e a Bologna, dove l’antipapa tenne la sua corte. Come parecchi altri musicisti italiani del suo tempo, Matteo da Perugia fu imbevuto di cultura francese e aderì a quella corrente che i musicologi moderni hanno chiamato ars subtilior, oppure “stile manierato”. Era questo un modo di scrivere altamente raffinato, ai limiti dell’esoterismo, estrema espressione di una civiltà medievale e cavalleresca ormai al tramonto, che prese vita durante lo Scisma d’Occidente, quando si verificò un intenso movimento di cantori e di musici fra la corte papale di Roma e quella antipapale di Avignone e, di conseguenza, le due tradizioni musicali dell’ars nova francese e di quella italiana esercitarono fra loro un reciproco influsso. Ne risultò una musica assai complessa ed intricata dal punto di vista ritmico, e ricca di alterazioni cromatiche usate talvolta in modo alquanto bizzarro. Si potrebbe vedere in ciò l’equivalente musicale del contemporaneo stile gotico flamboyant delle arti figurative, al quale la costruzione dello stesso Duomo di Milano si ispirava.

I nomi più importanti di musicisti operanti in questa temperie sono quelli del francese Senlèches e degli italiani Magister Zacharias, Bartolomeo da Bologna, Antonello da Caserta e, appunto, Matteo da Perugia. Le musiche di quest’ultimo pervenuteci sono tutte contenute in un manoscritto oggi conservato nella Biblioteca Estense di Modena; forse fu il compositore stesso a curare la raccolta dei suoi pezzi in quel manoscritto. Alcune composizioni di questo corpus sono sacre: si tratta di brani di Messe come Gloria e Credo, e di due mottetti di argomento religioso. È possibile che questi pezzi, o tutt’al più altri simili ad essi, abbiano risuonato sotto le volte allora in costruzione del Duomo di Milano. Accanto alle complessità abituali nella musica dotta del tempo, appaiono nella produzione di Matteo prodromi di quella tendenza verso la chiarezza d’eloquio e verso la suavitas canendi, intesa come dolcezza sonora, che avrebbe trionfato nella successiva età di Dufay. Comunque, si tratta di una musica dal gusto sottilmente ed edonisticamente raffinato, priva di effetti grandiosi o massicci, come è confermato dall’organico stesso a cui veniva affidata l’esecuzione.

Come si vede, nei primi anni di vita del Duomo coloro che erano preposti all’esecuzione della musica polifonica avevano poco in comune con una cappella corale. Sarà nel corso del Quattrocento, dominato dalla scuola fiamminga, che si formeranno le cappelle dall’aspetto di cori veri e propri. Un’evoluzione verso una compagine polifonicamente più ricca, anche se non ancora corale, si avverte dal fatto che nel secondo periodo del servizio di Matteo da Perugia a Milano – dal 1414 al 1416, dopo un interregno trascorso a Pisa e a Bologna alla corte dell’antipapa eletto dal Concilio di Pisa – egli è affiancato da un altro musicus seu biscantator, il prete del Duomo Ambrosino da Pessano.Fu solo dopo il 1430 che si avviò un processo di ampliamento del numero degli esecutori, che toccò l’apice intorno al 1470 con la presenza di ben quindici cantori, sì da configurare la formazione di una vera e propria cappella. Tale trasformazione era dovuta ai mutamenti del linguaggio musicale che ebbero luogo nel corso di quei decenni. Per opera dei Fiamminghi, infatti, la scrittura polifonica diveniva sempre più elaborata, con le voci sempre più indipendenti l’una dall’altra: si andava affermando un nuovo stile in cui tutte le voci rivestivano analoga importanza. Era opportuno, quindi, che le parti fossero tutte realizzate mediante un’esecuzione vocale, senza sostituzioni strumentali come ai tempi di Matteo da Perugia e dell’organista Antonio Monti da Prato; inoltre il nuovo stile, che presentava una scrittura più ampia ed ariosa, si prestava a un’esecuzione propriamente corale, cioè valentesi dell’apporto di più cantori per ogni voce.

Durante il Ducato sforzesco, che ebbe vita nella seconda metà del Quattrocento, entrarono nella cappella cantori oltremontani in numero sempre maggiore. Galeazzo Maria Sforza, assai ambizioso, amante delle arti e interessato alla musica, volle imprimere alla cappella un carattere confacente ai suoi gusti e a tale scopo favorì la venuta di musicisti francesi e fiamminghi, che raggiunsero il numero di sette sul totale di quindici membri. La cappella visse alcuni anni di disordine perché i cantori oltremontani interessavano molto al duca, che proprio allora stava abbellendo il Castello di Porta Giovia, divenuto la sua residenza (oggi noto come Castello Sforzesco), e desiderava adornare la sua corte anche con la presenza delle forme più raffinate e complesse di musica polifonica, oltre che con le arti figurative. I frequenti prestiti di cantori dal Duomo alla corte alteravano l’organico vocale del coro metropolitano, compromettendo il giusto equilibrio fra le voci più acute e quelle più gravi, né giovava alla cappella il fatto che dalla partenza di Feragut, cioè dal 1430, essa era priva di un capo che portasse il titolo di magister o di musicus, e che quindi fosse provvisto di un’autorità sufficiente per imporsi sugli altri cantori.

Nel 1471 Galeazzo Maria costituì la cappella ducale e in essa accolse tutti i cantori franco-fiamminghi che egli stesso si era adoperato perché fossero assunti nella cappella del Duomo. Forte di ben quaranta cantori e annoverante fra i suoi membri alcuni celebri musicisti fiamminghi come Weerbeke, il maestro, ed Agricola, Compère e Martini, la cappella ducale di Galeazzo Maria Sforza rappresentò, durante il suo breve quinquennio di vita, uno dei più importanti centri musicali d’Europa. Con la costituzione della cappella ducale quella del Duomo fu ridimensionata e rimase ridotta ad otto cantori, tutti italiani, diretti di fatto da Santino Taverna (presente fin dal 1463), il quale era provvisto semplicemente del titolo di prior biscantatorum. Tuttavia, durante le feste solenni essa veniva accresciuta con l’apporto di membri della cappella del duca. La contemporanea presenza a Milano della scuola franco-fiamminga, rappresentata dalla cappella galeazzesca, e di quella italiana, presente nella cappella metropolitana, favorì l’incontro fra le due tradizioni e i due gusti musicali che avrebbe prodotto i suoi frutti di lì a poco con Gaffurio. La dissoluzione della cappella ducale seguita all’assassinio di Galeazzo Maria nel 1476 indusse le autorità del Duomo a rafforzare la loro istituzione musicale, in modo da garantirne l’autosufficienza. Così nel 1477 per la prima volta dopo quarantasette anni si nominò un vero direttore nella persona di Giovanni Molli. Da allora ebbe inizio una serie di maestri di cappella praticamente ininterrotta, tranne alcuni brevi periodi d’interinato. Nel 1480 l’organico della cappella raggiunse il numero, consueto per l’epoca, di dieci cantori oltre al maestro.

Per la successione a Gaffurio la scelta dei Fabbriceri del Duomo cadde su un oltremontano, a conferma del fatto che nella prima metà del Cinquecento l’egemonia musicale fiamminga in Italia, nonché in tutta Europa, non si era ancora estinta. Anche altre città italiane si valsero a quell’epoca dell’opera di musicisti fiamminghi; nel caso particolare di Milano, ciò fu dovuto in parte alle vicende politiche che sempre più strettamente legavano la città alla Francia e in seguito a Carlo V, padrone dei Paesi Bassi.Dal 1522 al 1550, dunque, fu maestro di cappella Matthias Hermann Werrecore, forse originario di Warcoing nell’Hainaut. Le notizie sulla sua vita a noi pervenute lo presentano operante solo a Milano; tuttavia, la presenza di sue composizioni in antologie stampate dell’epoca è indizio di una discreta notorietà che egli deve aver goduto ai suoi tempi. Cinque anni dopo il suo ritiro dal posto di maestro di cappella egli pubblicò un libro di mottetti a cinque voci, nel quale con ogni probabilità confluirono anche musiche scritte per il Duomo. In questa raccolta si leggono pezzi dall’elaborato ed interessante disegno compositivo, che rivelano, tra l’altro, una notevole ricchezza di risorse polifoniche, qualità non rara in un maestro fiammingo di quell’epoca. Abbastanza rara è invece la spiccata attenzione rivolta da Werrecore verso un’espressiva declamazione della parola, che ottiene risultati di particolare fascino. A tendere verso la limpidezza d’eloquio il compositore era stimolato dall’ambiente stesso in cui operava, dove era ancora vivo il retaggio artistico di Gaffurio. L’organico della cappella, infatti, per tutto il Cinquecento si mantenne pressappoco uguale a come era stato all’epoca di Franchino (nel 1534 si contavano quattro bassi, tre tenori, quattro contralti e sei pueri) e, quel che più conta, rimase formato esclusivamente da cantori italiani.Al di fuori del campo della musica sacra, Hermann Werrecore scrisse un pezzo che godette di notevole fortuna e che fu ristampato in varie trascrizioni per voci e per strumenti: una composizione a quattro voci di carattere descrittivo appartenente al genere assai comune della “battaglia” ed ispirata alla famosa battaglia di Pavia del 1522, a cui lo stesso musicista aveva preso parte. Quanto a diffusione e a notorietà, la “battaglia” di Werrecore rivaleggiò col prototipo di questo genere musicale, ossia con la celebre chanson di Janequin ispirata all’altra grande battaglia combattuta per il possesso del ducato di Milano: quella di Marignano del 1515.Verso la metà del Cinquecento la cappella ducale conobbe sotto il governo spagnolo una rinnovata vitalità. In occasione della visita a Milano di Filippo II nel 1548, ai festeggiamenti parteciparono nella Corte Vecchia (odierno Palazzo Reale) la cappella del governatore Ferrante Gonzaga e la cappella giunta da Madrid al seguito del re, la quale comprendeva anche il grande organista Cabezón, mentre nel Duomo si esibì la cappella diretta dal fiammingo Werrecore e coadiuvata dall’organista Giovanni Stefano Pozzobonello e da altri strumentisti ingaggiati per la bisogna. Il Gonzaga fu anche mecenate dell’allora giovanissimo Orlando di Lasso, che fu presente a Milano dal 1547 al 1549. All’ambiente musicalmente cosmopolita della Milano di quegli anni, dunque, la cappella metropolitana dava il suo apporto.

Il maestro di cappella che si trovò ad operare in concomitanza con l’azione riformatrice intrapresa da San Carlo è una figura non secondaria del Rinascimento musicale: il veronese Vincenzo Ruffo. Al momento in cui fu chiamato a ricoprire l’incarico nel Duomo, nel 1563, egli poteva già vantare una solida carriera alle sue spalle, giacché era stato “musico” alla corte di Milano al servizio del governatore Alfonso d’Avalos marchese del Vasto, e poi “maestro” presso l’Accademia Filarmonica veronese, centro vivissimo di vita musicale, e maestro di cappella del Duomo di Verona, dove molto probabilmente ebbe per allievo Marcantonio Ingegneri, a sua volta maestro di Monteverdi. Considerata nel momento storico in cui si svolse, l’attività compositiva di Ruffo appare come un segno del progressivo emergere del primato musicale italiano e della crescente emancipazione dell’Italia dalla tradizione franco-fiamminga: è lui l’autore della più antica messa polifonica stampata a noi conosciuta che sia stata composta da un Italiano, e oltre che di musica sacra egli fu autore di duecentosessanta madrigali, un numero allora non ancora raggiunto da alcun compositore in questa forma musicale, che si era affermata da non molti decenni. Ai madrigali di Ruffo viene oggi riconosciuto un notevole interesse e una certa importanza storica. In effetti, la Milano di quegli anni fu anche un attivo centro di sviluppo del madrigale, grazie al mecenatismo dei governatori Alfonso d’Avalos e Ferrante Gonzaga, loro stessi musicisti, e alla presenza del notevole poeta madrigalesco Luigi Cassola, del teorico Anton Francesco Doni e dell’innovativo compositore Hoste da Reggio, forse fiammingo di origine. Non c’è dubbio che il già menzionato soggiorno a Milano di Orlando di Lasso abbia esercitato un certo peso sulla formazione del giovane musicista. Infine, Ruffo scrisse anche per strumenti: suoi sono i più antichi pezzi a noi conosciuti che portino il nome di “capricci”. Si tratta di composizioni a tre voci strumentali che presentano artifici compositivi originali e ingegnosi.

A questo autore, che partecipò così attivamente ai movimenti musicali della metà del Cinquecento, un volta che ebbe assunto il posto di maestro di cappella a Milano toccò un singolare destino. Due anni dopo la nomina di Ruffo, ossia nel 1565, San Carlo, che stava partecipando a Roma alla commissione di cardinali per la riforma della musica sacra, dette disposizioni affinché il suo maestro di cappella scrivesse in modo tale “che le parole fossero più intelligibili che si potesse”, e affinché spedisse a Roma una messa da sottoporre allo studio della commissione come saggio del nuovo stile conforme allo spirito del Concilio di Trento.Davanti a un invito così esplicito a comporre curando in primo luogo l’intelligibilità delle parole Ruffo si trovò costretto a rinunciare ad una musica contrappuntisticamente elaborata e a scegliere la strada dell’omoritmia.Se si confrontano il suo primo libro di messe, risalente agli anni in cui egli operava a Verona, e il suo secondo libro, costituito dalle Missae quatuor concinate ad ritum concilii Mediolani, a quattro voci e pubblicate nel 1570, non può sfuggire una differenza macroscopica. Lo stile un po’ fiammingheggiante dei primi lavori, polifonicamente ricco e insieme compostamente espressivo, cede il posto nelle messe milanesi ad uno stile rigorosamente omoritmico, assai singolare a quei tempi per una messa, giacché questa costituiva il genere musicale più dotto ed elaborato. Affinché il testo riesca veramente comprensibile all’ascolto, è necessario che le voci non si trovino mai a cantare sillabe diverse contemporaneamente; ne consegue che sovente nelle messe di Ruffo , contrariamente all’uso invalso nella musica polifonica, alcune voci non cantano il teso per intero,e, in casi estremi, in alcune voci perfino le parole restano mutilate di alcune sillabe. Queste messe, nonché le successive Messe nuovamente composte secondo la forma del concilio tridentino, a cinque voci, non brillano di viva fantasia creatrice; si tratta in realtà di musica funzionale al servizio liturgico e alla proclamazione dei testi.

Uno stile così radicalmente antipolifonico era destinato a rimanere circoscritto localmente a Milano, città direttamente investita dall’azione liturgico-pastorale di San Carlo, e limitato cronologicamente ai primi anni successivi ai severi dettami borromaici del 1565. Ne Il quarto libro di messe conforme al decreto del Sacrosancto Concilio di Trento a sei voci, del 1574, nonché nelle Missae Borromeae a cinque voci, pubblicate postume, il rigore omoritmico è un poco attenuato a favore di una scrittura più liberamente polifonica. In queste opere, come nei mottetti e nei Salmi suavissimi et devotissimi conformi al decreto del Sacro Concilio di Trento a cinque voci (pubblicati nel 1574), Ruffo ispirandosi ai principî conciliari trova la via per giungere ad un nuovo e felice stile personale, dove convivono una relativa chiarezza del testo e una lirica espressività.Quali forze vocali e strumentali davano voce alla musica di Ruffo? Oltre al consueto organico gaffuriano di cantori, rinforzato da elementi esterni in occasioni particolarmente solenni, vi era l’organo, che pure nell’epoca aurea del cosiddetto stile a cappella soleva accompagnare le voci sintetizzando la polifonia. A tale proposito, giova ricordare che a partire dal 1570 il Duomo di Milano ebbe, oltre che due organi posti uno di fronte all’altro (le cui casse sono ancora oggi visibili, e uno dei due organi era opera del grande organaro Gian Giacomo Antegnati) anche due organisti stabili; così anche a questa chiesa venne data la possibilità di accogliere lo stile fondato sulla contrapposizione fra due gruppi di voci e fra due organi, tipico, a quell’epoca, della musica sacra dell’Italia settentrionale. Tuttavia il primo esempio di musica a doppio coro per il Duomo di Milano apparirà solo nel 1584, quando Ruffo si sarà già ritirato: si tratta del mottetto Defecit gaudium a otto voci in due cori del maestro di cappella Giulio Cesare Gabussi scritto “in morte del cardinale Carlo Borromeo”. Nel Seicento e nel Settecento il genere policorale sarà assai praticato nel Duomo.

Si può concludere affermando che la cappella della cattedrale milanese nella sua lunga storia ha conosciuto fra i suoi maestri alcuni compositori di un rilievo non limitato all’ambito locale, e che in alcuni periodi le musiche scritte per la cappella costituiscono esempi significativi di avvenimenti importanti della storia della musica. Anche se il valore della produzione musicale non fu sempre eccelso, resta il fatto che dall’inizio del Quattrocento al Novecento numerosi maestri si succedettero quasi ininterrottamente come responsabili della musica per il culto nella Cattedrale; di costoro quasi tutti scrissero musiche per questo scopo; inoltre, dai tempi di San Carlo in poi la produzione musicale per il Duomo presentò delle precise caratteristiche, talvolta diverse da quanto nella stessa città si scriveva per altre chiese. Dunque tale produzione è interessante in quanto rappresenta il frutto di una vera e propria corrente musicale, che nella cappella prese vita.

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